Due percorsi artistici, due spettacoli differenti, un unico, fondamentale interrogativo. L’incontro Tra testimonianze e rappresentazione: due percorsi artistici a confronto, moderato da Elisabeth Sassi, ha visto in dialogo Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, della compagnia Kepler-452 e l’artista Tindaro Granata, tutti impegnati a esplorare la stessa, complessa, problematica: come mettere in scena le storie di chi non ha la libertà di farlo da solo?
Questa domanda diviene fondamentale quando il teatro, in questo senso, si fa strumento di una potente sociale. Non è più solo un luogo di finzione, ma uno spazio che si apre alla realtà, dando visibilità a ciò che altrimenti rimarrebbe invisibile. In questo modo, le esperienze portate sul palco non restano confinate ai margini, ma diventano patrimonio di tutti, permettendo al pubblico di confrontarsi con una realtà scomoda e complessa.
In Vorrei una voce, Granata alterna il racconto della sua esperienza diretta come operatore teatrale, che ha svolto nella casa circondariale di Messina dal 2019 al 2024, a cui aggiunge piccoli estratti autobiografici, con momenti in cui dà voce alle detenute che ha conosciuto, interpellandole in prima persona. L’artista si addentra in questa dimensione carceraria, un luogo con regole sociali e dinamiche diverse da quelle a cui siamo abituati, e ne racconta le difficoltà con cui anche lui si è scontrato, come quando ha ricevuto una sanzione per essersi tolto la maglietta mentre spiegava un movimento.
Il cuore dello spettacolo risiede nella capacità di Granata di impersonare le detenute, rendendo così visibili le loro storie. Le donne raccontano le loro vicissitudini, il rapporto con le famiglie prima e dopo la detenzione e le loro prospettive future. In particolare, il monologo si sofferma sulle sfide che si sono trovate ad affrontare durante il laboratorio teatrale, durante il quale hanno lavorato su alcune canzoni di Mina in playback. L’artista, con impressionante capacità tecnica, mette in luce un aspetto delicato e complesso: la difficoltà per queste donne di esprimere la propria femminilità e sensualità in un ambiente che vieta tale espressione. I momenti di playback, tecnicamente squisiti, diventano così veicolo per riappropriarsi di una parte di sé negata.
Ne La zona blu. Una lettura di appunti dai confini dell’Europa Nicola Borghesi accompagna il pubblico in una missione di soccorso di cinque settimane nel Mar Mediterraneo a bordo della Sea-Watch 5, vissuta in prima persona insieme a Enrico Baraldi. L’artista si serve degli appunti presi durante quel viaggio e dalle riprese fatte da Baraldi, che ripercorrono momenti di frenetica azione e toccanti aneddoti. Lo spettacolo, accompagnato dal contrabbasso di Francesca Baccolini, si distingue per l’onestà con cui Borghesi racconta i suoi pensieri, anche quelli più scomodi. La narrazione svela la vita sulla nave e i salvataggi di due barconi alla deriva, e soprattutto si sofferma anche su momenti di naturale umanità, come l’organizzazione di una festa per smorzare l’inerzia del viaggio di ritorno ma soprattutto per gioire dell’essere ancora vivi. Permette inoltre di guardare all’Europa con uno nuovo sguardo: cioè con quello di chi è sopravvissuto e cerca adesso un mondo che gli permetta di vivere al sicuro.
All’incontro, dopo aver condiviso alcuni aneddoti delle due diverse esperienze, il dibattito si è spostato sulla questione etica, ossia su come si possa affrontare in modo etico il dilemma di dare una voce a chi non ha la libertà di farlo da solo.
Tindaro Granata, non potendo portare le detenute fuori dal carcere, ha scelto di farsi lui stesso voce e corpo delle loro esperienze, con il massimo rispetto e aderenza alla realtà. Per sottolineare l’importanza di questo processo, ha condiviso un aneddoto toccante: il figlio di una delle detenute è andato a vedere lo spettacolo, si è commosso e ha persino partecipato a un laboratorio creato appositamente per i familiari.
Dall’altra parte, Borghesi e Baraldi hanno rivelato che nel loro spettacolo completo A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale, che si basa sugli appunti de La zona blu, porteranno sul palco anche dei soccorritori veri e propri. Una soluzione a cui sono arrivati dopo vari ragionamenti su cosa e/o chi fosse stato più giusto portare in scena.
Confrontando però unicamente gli spettacoli portati al festival si può notare subito come gli artisti abbiano trovato soluzioni artistiche nettamente differenti. In Vorrei una voce ci si concentra sul vedere, grazie al lavoro di immedesimazione di Granata; mentre ne La zona blu l’attenzione si concentra sul sentire i pensieri di Borghesi durante la missione di salvataggio.
L’incontro ha messo in luce come non esista una risposta unica e definita al dilemma tematizzato, non c’è una ricetta per tutti. Entrambi hanno dimostrato che l’onestà e l’integrità non si trovano nella pretesa che il teatro sia un luogo democratico, ma nella consapevolezza che l’artista impone un punto di vista proprio nel modo in cui sceglie di affrontare questa sfida. La conclusione condivisa da tutti gli artisti è che l’etica di queste forme teatrali risiede nella scelta e che sta proprio in questa scelta la responsabilità di ogni gesto artistico.
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A volo d’angelo – Tra macerie e memorie, il Tour di un sopravvissuto
A volo d’angelo apre la XXV edizione del Festival Internazionale di narrazione di Arzo con una grandissima affluenza da parte del pubblico e lo fa con un salto, o meglio un tuffo. Un tuffo non solo in una pagina della storia europea recente, della quale si cerca di non lasciare traccia, ma anche nella vita di una persona. Una persona divertente, affascinante, un po’ impertinente e, a detta dell’autrice e regista Federica Cottini, tamarra; è lui il protagonista di questa storia che si autodefinisce un crazy bosnian guy e si presenta immediatamente al pubblico come una guida turistica pronta a farci fare un tour nella sua città natale: Mostar. Questa città, oggi che è un uomo, si trova in Bosnia-Erzegovina, quando era bambino in Jugoslavia e quando era un adolescente, negli anni ‘90, era lo scenario di una delle guerre civili più brutali che si sono consumate in Europa.
Durante il tour per Mostar questa guida , interpretata magistralmente da Michelangelo Canzi, narra la sua vita e non fa un semplice excursus storico degli avvenimenti, raccontandoli in ordine cronologico; ma procede per associazioni apparentemente casuali. Lui scava durante il racconto fra le macerie della sua memoria, come quelle di Mostar; viene presentato un uomo a tratti frammentato che cerca di ricomporsi tramite queste schegge di ricordi che gli rimangono. Ed è così che si passa dal tour in cui si inizia a vedere Mostar a un’esplosione in un campo di calcetto, a una serata in discoteca, un appuntamento, una corsa in un corridoio di luce per portare munizioni di notte, alla decisione di fare un figlio, ai primi successi imprenditoriali, piccoli ovviamente, alla morte del proprio migliore amico, alla violenza che subisce la sua amica d’infanzia, al momento in cui non sa più se il suo amico con cui da ragazzo cercava il coraggio per tuffarsi, a volo d’angelo dal ponte di Mostar, sia ancora un suo alleato, un connazionale, un fratello.
Questa è la vita a Mostar che viene mostrata al pubblico, senza scenografia nè supporto video, viene mostrata tutta la vista di quest’uomo nei suoi frammenti che rivive davanti al pubblico.
La guida immagina anche cosa succederà dopo la sua morte però: racconta il suo funerale, di come si realizzeranno i suoi figli e di come cresceranno i suoi nipoti; racconta tutto con un sorriso. Un sorriso di chi ce l’ha fatta, più volte ripete che “gli è andata bene”; un sorriso indossato probabilmente anche per tutti i suoi amici e compagni che non possono più farlo.
Questo spettacolo pone anche una riflessione interattiva sul ricordo, instaurando con il pubblico un colloquio spiazzante, tanto che quest’ultimo in certi momenti non sa proprio come reagire restando in bilico tra le parole pronunciate dalla nostra guida.
Infatti, egli fra un ricordo e l’altro, si relaziona col pubblico, si interfaccia e lo interroga.
All’inizio pone subito al pubblico un quesito imprescindibile: come si lascia una traccia di sé oggi?
Tramite le foto, tramite internet, tramite i cellulari ormai posseduti da tutti.
Sono proprio i cellulari che la guida utilizza per interagire con il pubblico: chiede infatti spesso, alle volte con una certa arroganza simpatica, di essere fotografato, immortalato, per lui significa lasciare al pubblico una traccia. Una traccia appunto di un sopravvissuto, di una persona a cui è andata bene.
Finito lo spettacolo c’è stato un breve incontro nel quale Michelangelo Canzi e Federica Cottini hanno potuto rispondere ad alcune domande del pubblico. In particolar modo ci hanno tenuto a sottolineare come loro hanno fatto un grandissimo lavoro di ricerca, andando nei luoghi specifici del racconto, come la città di Mostar, e di come abbiano avuto vari rapporti con la comunità bosniaca. Hanno spiegato come la guida non sia una persona specifica, ma un collage, un’unione di vari frammenti delle persone che hanno incontrato e conosciuto nelle loro esperienze. Hanno voluto raccontare questa storia, questi pezzi di vita con enorme rispetto e delicatezza.
Un lavoro di raccolta e unione di testimonianze così meticoloso e profondo che mi è nata l’esigenza di chiedere alla drammaturga e al performer se la funzione dello spettacolo fosse quella di preservare la memoria di un evento drammatico, o avesse, invece, un valore di monito, alla luce dei conflitti in Europa e in Palestina. Federica mi ha detto che lo spettacolo è stato scritto due anni fa, prima che alcuni conflitti, come quello in Palestina, si intensificassero; per lei , quindi, questo lavoro è stato più focalizzato sul ricordo, e sull’importanza del raccontare e non dimenticare.
Aggiunge però che per come si è evoluto lo scenario internazionale, i richiami al contemporaneo stanno diventando inevitabilmente molto forti nello spettacolo echeggiando negli occhi degli spettatori.
Michelangelo, invece, sente molto la funzione ammonitrice per il futuro in questo spettacolo. Questo poiché mi ha spiegato che, come attore, per la costruzione del personaggio tendenzialmente lavora per immagini, e in questo caso specifico per dare forma a questa guida, a questo crazy bosnian guy, inizialmente si è basato sia sugli incontri avuti con i bosniaci conosciuti nei suoi viaggi in Bosnia-Erzegovina, sia studiando e guardando i documenti storici sulla guerra civile. Ad oggi però ha ammesso che ha iniziato ad utilizzare anche altre immagini per il lavoro di costruzione del personaggio quando va in scena; immagini più attuali e contemporanee: scene di guerra e di carestia delle quali sui social si è bombardati costantemente. Per questo sente che lo spettacolo possiede una forte valenza ammonitrice. Lui stesso afferma: “Non esiste memoria che abbia senso se non rilancia a qualcosa di presente. La memoria è una funzione, non è fine a se stessa, non è un museo”.
A volo d’angelo rimarca una banalità che ai giorni d’oggi sembra quasi essere sbiadita: da un evento come la guerra tutti ne escono in frammenti. Ma l’opera offre anche una potente riflessione sulla resilienza umana, su come dalle macerie si possa ricostruire una città come una vita; o anche un ponte a Mostar, sopra il fiume Neretva, alto 24 metri, bombardato e poi ricostruito, riconosciuto patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, dal quale i ragazzi ci si tuffano, a volo d’angelo.
